Wicked Minds. Quando arrivarono fu una botta al cuore.
Solo gli Standarte, tra chi in Italia guardava con amore
vero ai suoni magici dell’era settantiana, mi avevano entusiasmato così. Tra le
due band ci corre qualche anno in fatto di approdo alla militanza ufficiale, ma
c’è almeno un denominatore comune che ne riduce le distanze: è infatti la Black
Widow a produrre i rispettivi lavori, sebbene gli Wicked Minds di Piacenza non
siano qui al loro esordio universalmente riconosciuto.
Un altro aspetto di condivisione è la musica. Diversa, ma
ugualmente grandissima. Devota al passato ma capace di farlo rivivere senza che
l’operazione metta in gola il magone ai nostalgici.
Se si vuole ce n’è perfino un terzo, un po’ più tirato per i
capelli. E cioè che anche in questo caso c’è di mezzo una copertina dalle tinte... ad ultravioletti: “Standarte” era il risultato di una forte saturazione
dell’immagine, “From The Purple Skies” viene ricavata da un passaggio ai
filtri. In ogni caso già dall’idea grafica ecco due approcci romanticamente
retrò, due trucchi fotografici che si usavano un tempo...
Come detto, a differenza dell’omonimo degli Standarte, “From
The Purple Skies” non è l’opera prima degli Wicked Minds, band piacentina alla
cui carriera la Black Widow – impressionata dai contenuti stilistici dimostrati
fin lì – si offre di dare maggiore visibilità dopo che Roberto Mocca e la sua
W-Dabliu Records di Alessandria avevano per primi creduto nel progetto editando
l’esordio “Return To Uranus” nel 1999 (quando dall’imberbe thrash metal dei
primi demo si era arrivati intanto al primo step di uno stoner misto a certa
psichedelia hard hendrixiana, passaggio ottenuto attraverso la formazione
triangolare Calegari-Garilli-Concarotti) e “Crazy Technicolor Delirium Garden”
nel 2003 (sempre con Calegari nel doppio ruolo di chitarrista e cantante ma con
il gruppo già diventato un quartetto per la significativa aggiunta
dell’organista prodigio Paolo “Apollo” Negri).
“From The Purple Skies” di fatto ripropone la stessa
scaletta dell’album precedente con in più due cover e il sostanzioso finale
affidato alla rivisitazione della titletrack del primo Lp, proprio quella
“Return To Uranus” che negli anni è stata oggetto di modifiche e revisioni
continue. Soprattutto il disco segna la configurazione dell’organico a cinque
elementi con l’ingresso di una voce solista a tutti gli effetti, “l’amico di
famiglia” J.C. Cinel, condizione questa se non imposta almeno fortemente
caldeggiata dall’etichetta genovese per arrivare alla stipula del contratto.
Per dirla tutta anche alcune immagini dell’artwork sono
tratte in realtà proprio dalla stessa session fotografica del lavoro precedente
tant’è quella che su “Crazy Technicolor...” era solo la modella Silvia “Miss X”
Barbieri, quando appare su “From The Purple Skies” è già ormai diventata la
fidanzata di “Apollo” Negri. Ovvìa, anche Brigata Rock da adesso può
annoverarsi tra i blog di gossip e pettegolezzi...
Eppure, nonostante questi stretti imparentamenti, il primo
lavoro nato sotto l’egida Black Widow non è certo un semplice copia-incolla di
quanto realizzato prima. Anche perché il concetto di fissità decisamente non
appartiene alla band che rimarrà invece sempre in continua mutazione: prima il
doloroso cambio di batterista (Ricky “Mendosa” Lovotti per lo storico
Concarotti), poi l’abbandono di Cinel e la “rivoluzione” di affidarsi alla voce
solista di una donna (la tigre Monica Sardella), infine il coraggioso tributo del
2011 dedicato agli eroi del prog tricolore che sposta abbastanza il baricentro
espressivo degli Wicked Minds. Ma la mutazione va intesa in progresso anche
oggi che il progetto appare momentaneamente congelato, sopravanzato per adesso
dalla maggiore spinta che Lucio Calegari sente di dover dare in questa fase alla
sua creatura paralella, gli altrettanto ottimi Electric Swan (sempre con la
grintosa Monica alla voce).
“From The Purple Skies”, realizzato con benedetto
atteggiamento passatista attraverso una strumentazione che odora d’antico e fa
l’invidia dei collezionisti ma cui s’infonde una vitalità nettamente al passo
coi tempi, viene realizzato all’Elfo Recording Studio di Tavernago, Piacenza. Gli
Wicked Minds di fatto non devono percorrere molti chilometri per ottenere quello
che desiderano perché l’Elfo è proprio ciò che cercano, un meraviglioso
ambiente studiato per una cura capillare del suono, tecnologie avanzate a
disposizione della sensibilità del più nobile degli artigiani: progettata
dall’architetto Romolo Stanco, la multicolore struttura dell’Elfo prende forma
nei primi anni ’90 nella campagna piacentina ai piedi della zona collinare di
Agazzano grazie alla passione di Alberto Callegari (una “L” in più rispetto a
Lucio e su questo disco responsabile di missaggio e mastering) e diventa in
fretta un punto di riferimento per i cultori della registrazione in studio.
Artisticamente il disco vive della perfetta simmetria tra
chitarra e organo e poggia sulla simbiosi creativa dei due rispettivi
strumentisti “manovratori”. Lucio Calegari è il prototipo del chitarrista hard
rock: lo è per conoscenza profonda della materia, lo è per stile e ideologia,
lo è per quanto ama il sound del suo strumento, lo è per spirito libero e
selvatico. Lo è anche per physique du role. Tutte caratteristiche difficilmente
cumulabili nella stessa persona quando si parla di musicisti italiani.
Apollo Negri, che in verità aveva solo 8 anni quando il
gruppo si formò (si parla dell’87), mischia Brian Auger a Jimmy Smith (lo si
ascolti con la band di provenienza, i divertentissimi Link Quartet che
sciorinano funky, beat anni ‘60, jazz, soul e rhythm’n’blues) però è affascinante
ascoltare in lui anche remote tracce del Peter Robinson dei Quatermass o di
Reinhold “Bubu” Sobotta dei Birth Control per arrivare anche al tocco jazz-soul
di Lynton Naiff degli Affinity.
Sebbene per ciò che riguarda l’approccio hard dei Nostri
(quindi al netto delle trame più psycho) si possano registrare in diversi
tratti dell’album parentele piuttosto strette con Fuzzy Duck e primissimi Eloy,
se dovessi fare il nome di un disco a cui, parere personale, più si avvicina
“From The Purple Skies” citerei “First Loss”, l’unico lavoro dei Murphy Blend,
anno di grazia 1971. Non è per sfoggiare a tutti i costi una conoscenza che di
fatto non si ha, ma troppo spesso nelle considerazioni attorno allo stile
Wicked Minds si cita un po’ per riflesso la triade Deep Purple-Uriah
Heep-Atomic Rooster. Non è certo un errore, riferimenti a questo podio illustre
si riscontrano davvero lungo gli 80 minuti del Lp (consistenti ci sembrano più
che altro quelli alla band di Mick Box), ma troppo spesso la presenza paritaria
di organo e chitarra all’interno di un tessuto sonoro cava fuori quasi per
induzione dal cilindro del recensore il paragone più diretto e, se si vuole,
scontato. Quando però ascolto “From The Purple Skies”, mi sfugge la dotta
componente classica che stava a monte del parto delle menti di Lord e
Blackmore, non ravvedo gli arrangiamenti pacchiani o la drammaticità di certi
Uriah Heep, né tantomeno rilevo la penombra dark e i nervi scoperti degli
Atomic Rooster più conosciuti. Invece pur considerato che “First Loss” è un
album minore (anche un po' deboluccio nel chitarrismo solista) realizzato a Monaco oltre trent’anni prima, ecco che spolverandone il
sound, orientandolo geograficamente e “climaticamente” più a sud, quindi
esponendolo ad una maggiore mediterraneità (l’hard rock teutonico non brillò
mai per calore e solarità) e soprattutto innestandoci sopra un cantante di
livello, non dico che proprio si ottenga l’esordio degli Wicked Minds, ma neppure
si dica una grossa bestemmia a paragonarcelo. E credo in definitiva che Lucio,
soprattutto nel suo vecchio ruolo di negoziante di dischi innamorato delle
sonorità arcaiche, non avrebbe a dolersi granché dell’accostamento.
A fronte di una splendida introduzione che apre a liquidità
psichedeliche ma che soprattutto omaggia il caro vecchio prog italico (Metamorfosi
in particolare), la title-track parte poi in tutt’altra direzione dando vita ad
una vorticosa corsa a perdifiato retta dal giro valvolare dell’hammond. Qualche
similitudine, benché lì non ci fosse linea vocale e qui invece ce ne sia una
ben disegnata e incisiva, esiste tra questo brano e “Flight Of The Phoenix” dei
Grand Funk Railroad, ovvero il termine temporale con cui Craig Frost –
inizialmente quale membro esterno – arrivò a sfaccettare con l'organo il suono fin lì solo piramidale
di Farner-Brewer-Schacher. Per me questo brano continua ad essere la sintesi
perfetta di cosa sono (stati?) gli Wicked Minds, quello che sempre faccio
ascoltare per primo quando ho voglia di farli conoscere a qualcuno: suoni
stellari, arrembaggio ritmico, assoli misurati ma dinamitardi, voce sugli scudi. C’è tutto: tempra, capacità compositiva, grinta, fisicità, cultura, divertimento.
“The Elephant Stone”, che ripropone un ritornello che J.C. e
Calegari avevano composto circa vent’anni prima (a dimostrazione che le buone
idee prima o poi uno sbocco per venire alla luce lo trovano sempre), pare per davvero un
tributo alla memoria degli Uriah Heep almeno fino a quando la band non arriva
ad un passaggio più acidamente psichedelico e fosco con qualche richiamo a
certe fumiganti arie dei May Blitz; poi un respiro sulle ali distese del
mellotron e di nuovo l’immersione nell’hard più corale dove Calegari strazia
l’anima con un solo lancinante.
“Drifting” giunge più ragionata e prima di snocciolare il
suo vero nucleo hard rock (ricavabile tra bridge, refrain e nell’incrocio degli
assoli poco oltre la metà) fa il giro largo divagando su melodici sentieri
progressivi sfruttando anche un’apertura classicheggiante e il fascino aulico
del flauto, qui portato in dote dall’ospite Patrizio Borlenghi, vibrafonista,
percussionista e appunto flautista con tanto di diploma al Conservatorio e collaboratore
di diversi insiemi orchestrali del piacentino.
“Across The Sunrise” presenta inizialmente un altro divino
inserto di hard progressivo di chiara matrice tricolore perché un Calegari ispiratissimo
sfodera guizzi artistici simili a quelli del Bambi Fossati meno interessato a
riprodurre Hendrix e perché il pezzo risveglia anche il ricordo del Biglietto
Per L’Inferno (qualcosa d’imprecisato mi fa ripensare al finale de “L’amico
suicida”). Poi si addiviene al corpo vero del brano, fatto di una tensione hard
palpabile, fatto di strofe ritmicamente claudicanti e (g)riffate da una
fantastica chitarra seventies in cui il canto di J.C. viene sotterraneamente
ribadito da una versione antitetica e solforosa e con infine un refrain che
mette tutti d’accordo per la sua facilità ad essere intonato a piena voce. Il
suono è prepotente, l’audacia non manca, il petto in fuori, la voce emerge limpida
e sicura e, nota di merito aggiuntiva, Andrea Concarotti suona in maniera superbamente old-style (almeno
quanto le sue basette!).
“Forever My Queen” è la versione potenziata del vecchio
brano dei Pentagram tanto che la sterzata su atmosfere più sinistre e heavy è
abbastanza distinguibile. La canta Lucio Calegari, più vicino alla timbrica
squilibrata del mefistofelico Bobby Liebling, gettando un ponte col passato ove
era lui il singer della band, e la citazione dei doomsters della Virginia è un
accento caliginoso sulla prosa limpidamente hard dell’intero disco. Uno sbuffo
di cenere, un ghigno luciferino.
Nel suo sensuale avvio “Rising Above” permette a J.C. Cinel
di interpretare un po’ alla Coverdale mentre più avanti, nello sviluppo del
pezzo, se la smazzano Lucio e Apollo spartendosi assoli e dando pienezza e
abbellimento ad una traccia che altrimenti strutturalmente incanta meno di
altre.
Se assai più spigolosa esordisce “Queen Of Violet” che
alterna perfidi sussurri a esplosioni heavy, tensioni darkeggianti ad elettrici
colpi di frusta (qui sì che emergono archetipi di derivazione Uriah Heep, c’è
già in embrione una prima citazione di “Gypsy” quando Apollo fa tremolare
solitarie note di hammond), “Space Child” approccia cullante e romantica, ha la
cadenza della ballata, ma con gli Wicked Minds non si può mai stare tranquilli
e appena appresso le flautate strofe in chiave space-folk ecco che la band
irrompe a briglia sciolta e la fusione tra parti strumentali e linea cantata
offre un’interconnessione ideale. Struttura progressiva, orizzonti psichedelici
e temperature hard rock: un gran bel manifesto sonoro per la band, un crogiolo
di elementi differenti dove la mescolanza è studio e arte, non guazzabuglio.
Con “Gypsy” gli Wicked Minds dichiarano espressamente
l’amore per gli Uriah Heep rieditandone con ossequio e fedeltà l’antesignano
dei loro capolavori: Apollo Negri non si tira indietro nel confronto con Ken
Hensley e se anche gli manca la lunga criniera con cui scapellare sui tasti calca
ugualmente la mano sull’hammond con lo stesso ardore selvaggio del tastierista
di Plumstead mentre è molto probabile che anche Byron da lassù approvi e
sorrida sotto i baffi. Da più parti ho sentito chiamare in causa l’ingombro del
mito David Byron quando si è inteso descrivere il cantato di J.C. Cinel. Però in
questo raffronto non è che io distingua troppe similitudini. Al di là che
paragonare qualcuno a Byron significa volergli male, qui si tratta più che
altro di diversa attitudine. In comune i due hanno senz’altro la natura
adamantina della voce ma se quella santificata icona rock ne faceva un uso
avventuroso sfidando ogni volta sé stesso sul terreno dell’interpretazione, il
nostro J.C. (la cui vocalità, intendiamoci, è il valore aggiunto degli Wicked
Minds e ciò che ha veramente permesso loro di avere un profilo internazionale)
rimane saldamente in equilibrio sulle certezze della propria tecnica riducendo
a poche varianti quella coraggiosa follia che ha reso imperitura l’arte dei più
grandi cantanti seventies. Non solo: il coinvolgimento di Cinel nel progetto di
Calegari è, se si vuole, quasi un po’ una forzatura rispetto a ciò che il
vocalist aveva fatto fin lì e a ciò che che continuerà a fare anche una volta
uscito dalla band: partendo dalle esperienze con i gruppi Lost And Found,
Poison Whiskey, Head And Heart, passando per l’affermazione della carriera
solista per arrivare alla collaborazione con la Jimi Barbiani Band, la sua
vocazione è quella di un sano rocker classicamente innamorato dei suoni americani
più tradizionali, dal country-blues al southern, dalla west-coast a forme di
cantautorato folk-rock.
A posteriori la band non si dirà totalmente soddisfatta della
cover di “Gypsy”: non per la resa (perché sfido chiunque a poterne dir male),
quanto semmai per l’eccessiva adesione al modello originale. Quello che infatti
agli Wicked Minds non manca durante tutto l’arco del Lp è il coraggio:
“appiattirsi” dunque all’ombra di un colosso come quel successo immortale degli
Heep, anche se lo avevano in scaletta dal vivo da un bel po’, non li dovette
far sentire molto appagati. Lo dimostrarono nel disco successivo, “Witchflower”
del 2006, in coda al quale omaggiarono sì un’altra band mitologica (taluni Deep
Purple...) e una loro ballata assai nota (“Soldier Of Fortune”) ma lo fecero
apportandovi un bellissimo contributo strumentale inedito che rivendicava a
pieno titolo la grande personalità di Negri e compagni.
Dura 18 minuti la conclusiva “Return To Uranus”,
rielaborazione di un brano che esisteva già da un sacco di tempo nel repertorio
del gruppo. Calegari e compagnia trascinano i Deep Purple nelle estensioni
della jam psichedelica, nel gioco di sponda che regola quell’interplay tra
strumenti di cui loro stessi all’alba dei ’70 furono eroici fautori nei
concerti, ma soprattutto a me sembra che si divertano a riesumare dal
dimenticatoio gente assai più sconosciuta come i Frumpy di Inga Rumpf e
Jean-Jacques Kravetz, soprattutto quelli di “2” (uno dei dischi hard rock da
riscoprire assolutamente). Prima che la band intera dopo il segnale dato dal
basso di Enrico “Deep” Garilli metta la quinta, è tempo di manovre e
allineamenti tanto che inizialmente Negri e Calegari scrocchiano le dita e scaldano i motori dei loro
strumenti: da un lato Apollo si prende la cura necessaria
per portare a regime il pachidermico auto-articolato dell’organo hammond (lo fa
procedendo quasi per gradi e introducendoci meravigliosamente alla gamma delle
sue possibilità sonore), dall’altro il “Cigno” Calegari misura lo stato di
forma della sua Gibson con guizzi melodici e rapide frasi. E’ insomma la lenta,
rituale predisposizione alla fatica che dovranno sostenere di lì a poco, la
regolazione e la taratura dei suoni, la sincronizzazione di due velocità e due
linguaggi così diversi eppure al tempo stesso capaci di una combinazione
estremamente affascinante.
Più avanti poi il pezzo, complici il canto del moog e la carezza del
flauto, ripiega sul rock progressivo ed ha una meravigliosa coda strumentale
dove il polmone dell’ascoltatore si rigenera inspirando lento dopo la maratona
ad andatura sostenuta di tutta la prima parte del brano ma a ben guardare anche
di tutto il Lp. Rock progressivo di quello che non va ad impelagarsi in assurde
strettoie ritmiche, in gimcane asettiche dove sia soltanto la penna sul pentagramma a
decidere come, dove e quando. No. Qui, giunti alla fine della corsa, si
leva l’ancora dell’ispirazione più libera, lo spazio si apre d’improvviso, il
tempo si cancella: rimane tutta la larghezza degli ampi giri melodici,
reiterati fino a sfumare, su cui Lucio imbastisce l’ultimo dei suoi assoli, tre
minuti dipinti senza assillo, con tutta l’anima di fuori...
Oggi che tanti gruppi (per di più inglesi e scandinavi), giustamente
sotto la lente d’ingrandimento della critica, stanno concretizzando il ritorno
deciso alle sonorità e alle tendenze dei seventies, esaltando attraverso nuove
forze un modo amabilmente vecchio di fare musica, ecco, bisognerebbe che molti
di quei gruppi prima si ascoltassero gli Wicked Minds e poi decidessero se è
davvero o no il caso di provarci. Perché reggere il confronto con chi questo
modo di suonare rock lo ha realizzato in maniera così grandiosa non credo sia
molto facile.
Per chiudere: di “From The Purple Skies” hanno parlato bene
tutti, il mio parere non apporta nessun contributo significativo alla statura
dell’opera. Semmai, a fronte di tutte le recensioni entusiastiche che sono
piovute addosso alla band, la mia ha una virtù che spero faccia comprendere a
Lucio e compagni quanto poco abbia di gratuito.
Ebbene sì, cari Wicked Minds, sappiate che per un tifoso
della Cremonese non sia stato per niente facile incensare le gesta dei “nemici”
piacentini!